PSICOLOGIA

di Francesca Maffei, responsabile del servizio di psicologia ospedaliera AOU Meyer

Il rapporto con il cibo va ben oltre il semplice atto della nutrizione: il cibo infatti rappresenta un bisogno primario dell’essere umano ed è permeato di valori simbolici largamente condivisi. Per cogliere l’aspetto culturale dell’alimentazione, è sufficiente pensare ai momenti di convivialità, condivisione e ritualità collettiva in cui, il pasto diviene il fulcro di complesse interazioni affettive e comunicative; per coglierne gli aspetti psicologici, invece, basta pensare alla relazione che sin dalla nascita si stabilisce tra il bambino e la figura materna, intesa come fonte di nutrimento non solo fisico, ma anche emotivo e mentale.

La diagnosi di un’allergia comporta per il bambino che la riceve e per i suoi cari, un grande cambiamento nello stile alimentare e di vita, generando forti ripercussioni a livello emotivo, oltre che relazionale e sociale. Tutte le abitudini alimentari già acquisite, di colpo vengono rivoluzionate e la dieta “allergen free”, necessita di essere immediatamente intrapresa. È chiaro che questo implica una completa riorganizzazione delle giornate e della vita sociale del bambino e dei suoi familiari, comportando delle difficoltà che vanno al di là della semplice prescrizione di “non mangiare l’allergene”. La diagnosi di allergia si configura come un vero e proprio momento di crisi, capace di generare nella mente del bambino, una sorta di separazione tra il pre ed il post-diagnosi, tra “ciò che era” e “ciò che sarà”: un po’ come un lutto, che come tale ha bisogno di essere elaborato. Il disagio maggiore è comunque rappresentato dalla dieta. Nei bambini, il divieto di mangiare alcuni cibi può non essere compreso e quindi vissuto come una costrizione e punizione: è importante passare informazioni chiare ed oneste, a partire dalla comunicazione della diagnosi dei medici sia al bambino che ai genitori, ed anche su ciò che è possibile mangiare e sull’importanza dell’aderenza alla dieta, facendo chiarezza nei suoi pensieri e gettando le basi per un nuovo rapporto di fiducia in cui il piccolo possa sentirsi accolto e capito. Il bambino spesso affronta la malattia come un evento esterno a sé, sentendosi minacciato nel suo senso di sicurezza e sviluppando il timore di essere considerato diverso. Informare e sensibilizzare gli insegnanti, i parenti e i genitori degli amici sull’allergia, può essere utile per rafforzare il senso di competenza e di fiducia del bambino, facendolo sentire tranquillo anche in contesti diversi da quello familiare. Più complessa è la situazione in adolescenza, dove la malattia cronica può interferire con il bisogno di autonomia-indipendenza tipico di questa fase e con l’esigenza di accettazione da parte dei pari, generando un senso di impotenza e di inferiorità rispetto ai compagni che può portare il ragazzo ad isolarsi, a rifiutare la diagnosi o a trasgredire la dieta, come segno di ribellione. Le reazioni della famiglia rivestono un’importanza particolare per l’accettazione-adattamento del bambino alla malattia, oltre che per l’adesione alla dieta: ciò sta a significare che il bambino vivrà l’allergia con il senso che le verrà attribuito dall’ambiente, specie dall’ambiente che conta. Per tale ragione, il modo migliore per aiutare un bambino in difficoltà è quello di aiutare i genitori a rinforzare o recuperare la fiducia in se stessi, ad accogliere il sentire del bambino senza esserne spaventati, a trovare il giusto equilibrio tra istinto di protezione e incoraggiamento all’autonomia del piccolo. Attraverso il supporto di uno psicologo si può trovare un contenimento delle ansie, delle preoccupazioni per il futuro del bambino, e dei sensi di colpa, imparando che solo se si è capaci di parlare della malattia e delle “parti malate” del bambino, le “parti sane” avranno l’opportunità di emergere e di esprimersi.