PER I NOSTRI FIGLI
di Angela Pittari, pediatra di famigliaLa maggior parte dei genitori, e più in generale, la nostra società, considera la comparsa delle prime parole e il regolare sviluppo del parlare indicatori importanti della normale crescita e sviluppo di un bambino. Bisogna arrivare alla fine del secolo scorso per delineare un primo modello anatomico e fisiologico alla base del parlare: l’orecchio per sentire le parole, il cervello per elaborare ciò che si sente, la bocca e la lingua per produrre le parole, l’occhio per vedere le parole scritte e la mano per eseguire gli ordini del cervello. Dunque un sistema anatomico e funzionale molto complesso: dall’integrità di ogni singola sua parte dipende la capacità di parlare, anche se il contesto ambientale, sociale ed economico in cui il bimbo vive gioca un ruolo fondamentale nel produrre il linguaggio.
Le segnalazioni da parte dei genitori sono frequenti: “Mio figlio non parla ancora” oppure “non parla bene, confonde le lettere”, o ancora “rispetto a suo fratello dice pochissime parole e a modo suo”. Non sempre è facile individuare da cosa dipenda il problema del bambino. Un problema del linguaggio riconosce cause molto diverse, più o meno importanti e nonostante l’allarme che innesca in famiglia, quando insorge in età prescolare (dai 2 ai 6 anni), ha generalmente evoluzione benigna ed è piuttosto diffuso, arrivando ad interessare il 5% dei bambini. In questi casi, trattandosi di una condizione transitoria, non è necessaria nessuna terapia. Quando invece si sospetta un ritardo nello sviluppo linguistico è consigliabile consultare uno specialista per appurare che non vi sia una causa patologica alla base del disturbo. Il vostro pediatra di fiducia sa bene che esistono alcuni indici da tenere presenti ai vari bilanci di salute del vostro piccolo e comincia ad allarmarsi se:
- tra i 5 e i 10 mesi non c’è la cosiddetta lallazione (primi vocalizzi del bimbo: dadada, tatata...)
- a 12 mesi non risponde se chiamato
- a 18 mesi dice meno di venti paroline
- tra i 24 e 30 mesi dice meno di cinquanta paroline.
E’ da precisare che tra tutti i casi con disturbi del linguaggio, solo una piccola quota di bambini presenta il problema in modo permanente: la diagnosi è spesso complessa, perché lo sviluppo del linguaggio non avviene in maniera uniforme e standardizzabile in tutti i bimbi, ma con estrema variabilità sia nei tempi che nei modi. La crescita e la maturazione delle competenze comunicative sono, infatti, influenzate da fattori esterni, quali la frequenza dell’asilo nido e/o scuole d’infanzia, lo stimolo dei genitori attraverso la conversazione quotidiana, la lettura, le filastrocche, la presenza di fratelli e sorelle più grandi. Un bimbo acquisisce l’autonomia del parlare, procedendo a passi e ritmo non costanti: dapprima attraverso l’apprendimento dei suoni e successivamente il loro assemblamento a formare sillabe, che vengono ripetute e danno origine alle parole e, via via, alle frasi.
Il medico, pur non drammatizzando la questione, per evitare di innescare blocchi psicologici o sensi di colpa che finirebbero con l’inibire ancora di più il bambino, farà un’attenta sorveglianza, tenendo conto della possibilità che il disturbo possa evolvere in qualcosa di più complesso man mano che il bimbo cresce e si confronta con i coetanei. Le difficoltà nel linguaggio hanno, infatti, ricadute importanti nelle relazioni sociali e affettive, così come nell’apprendimento scolastico, nella lettura, nella scrittura, e se trascurate, possono determinare problemi relazionali che penalizzano lo sviluppo armonioso del bambino.
Una volta che la diagnosi di “Disturbo persistente del linguaggio” è stata confermata attraverso la valutazione neuropsicologica, viene attivata la riabilitazione linguistica mediante il logopedista che attuerà, di volta in volta, un programma personalizzato al singolo bambino e al suo specifico disturbo.
Di seguito alcune semplici strategie, che propongo di solito ai genitori, al fine di favorire lo sviluppo linguistico del proprio bambino:
• Usare frasi semplici, non molto lunghe, utilizzando sempre parole “non deformate” (“il nenne” per acqua, “il puppo” per ciuccio e così via).
• Non correggere la pronuncia delle parole del bambino, ma ripetere in modo corretto la parola/frase che il bambino voleva produrre.
• Proporre giochi che stimolano lo sviluppo linguistico e la memoria.
• Leggere assieme al bambino libri stimolanti e coinvolgenti, chiedendogli ogni tanto di nominare il personaggio del racconto indicandolo nelle figure.
• Disporre i giochi su mensole non direttamente raggiungibili dal bambino, di modo che debba nominarli per averli.
• Non fare domane chiuse ma aperte (ad es. non chiedere “vuoi questo o quello, vuoi l’acqua?” ma “cosa vuoi”?) inducendo il piccolo a esprimere il suo desiderio.
Due parole su un problema altrettanto ansiogeno per i genitori, la “balbuzie fisiologica” che si osserva frequentemente in alcuni bambini che, sembrano partire bene con le competenze linguistiche, ma attraversano un periodo di assestamento intorno ai 4-6 anni, quando stanno imparando a comporre frasi complesse. A volte basta un trasloco, l'inizio della scuola, la nascita di un fratellino, un distacco dai genitori prolungato, per far emergere un disagio sotto forma di balbuzie; il bambino, come l'adulto, può vivere stati d'ansia, dolore, frustrazione, perdita di autostima e incertezza e la balbuzie infantile può esprimere il tentativo del bambino di comunicare al mondo adulto, spesso distratto e poco presente, un disagio che sta attraversando.
Per fortuna la balbuzie, nella grande maggioranza dei casi, si dice “fisiologica” perché regredisce spontaneamente negli anni successivi senza nessuna terapia. In alcuni casi l’ansia e il disagio che ne derivano è talmente importante da indurre il bambino a scatti di ira o, di contro, alla rinuncia di parlare generando un circolo vizioso da cui sembra difficile uscirne. Non è un caso che la balbuzie si acutizza quando c’è una pressione a comunicare, ad esempio parlare ad estranei, fare un’esibizione in pubblico (recite scolastiche), un’interrogazione. Per questa ragione si esortano i genitori a non dare troppo peso alla questione, ma evitare di interrompere il piccolo mentre parla, non sgridarlo o mostrarsi divertiti quando balbetta, non metterlo in imbarazzo davanti agli estranei. Non dimentichiamo che i genitori sono, come più volte sottolineato, i principali soggetti ed attori, che possono prevenire, individuare e curare i piccoli disturbi del linguaggio e dell’apprendimento del loro bambino. Sono loro che possono, opportunamente educati, portare il problema all’attenzione del pediatra il quale può fornire utili consigli se si tratta di un disturbo lieve, oppure avviare una consulenza dallo specialista il più tempestiva possibile laddove fosse necessario.