PSICOLOGIA

a cura di Alessandra Guarino, psicologa AOU Meyer

La parola deriva dal greco antico: empatéia, a sua volta composta da en-, "dentro", e pathos "sofferenza o sentimento", ma non riguarda soltanto la possibilità di sentire la sofferenza altrui bensì, più in generale, la capacità di sintonizzarsi sugli stati emotivi dell’altro. Tale capacità è intrinseca a tutti gli esseri umani e deriva dalla presenza, in una parte specializzata del nostro cervello, di un insieme di cellule chiamate “neuroni specchio”. Il nome di questo gruppo di neuroni rivela intuitivamente la possibilità di rispecchiamento emotivo con l’altro e ciò vale sia per le emozioni negative sia per quelle positive. Alcune persone sono più inclini all’empatia altre invece hanno costituzionalmente più difficoltà sulla sintonizzazione emotiva. Nonostante ciò è importante sapere che è possibile, attraverso un lavoro introspettivo, potenziare l’empatia.

Per la crescita del bambino è fondamentale un ambiente in grado di agevolare il suo sviluppo fisico ed emotivo, una base sicura per creare quei legami necessari ad affrontare la vita. Infatti, educare basandosi sull’empatia vuol dire entrare in relazione con i figli, cercare di mettersi nei loro panni e osservare come sentono se stessi e il mondo esterno. Ma questo lo si può fare soltanto se noi per primi siamo in una relazione empatica con noi stessi, se diamo spazio e voce alle nostre emozioni, se diamo valore a ciò che passa nella relazione al di là delle parole.

I bambini hanno questa capacità empatica particolarmente sviluppata e sono in grado di percepire (magari non di pronunziare) gli stati emotivi dell’altro. Per cui nella relazione tra adulto e bambino la comunicazione empatica esiste, anche se non sempre la riconosciamo. Ciò è particolarmente evidente nelle relazioni con i figli in cui laddove, nella comunicazione, il verbale non collimi con il sentire, ciò viene avvertito immediatamente dal bambino proprio attraverso la sua empatia. E’ quindi importante che, da parte di ogni genitore, ci sia un allenamento costante sul proprio sentire che è ciò che poi, nella comunicazione, arriva all’altro oltre il verbale. Le emozioni infatti si respirano, si percepiscono (se ci si fa attenzione) anche molto distintamente e vengono trasmesse all’altro in un dialogo “sotterraneo” ineludibile. Un “no” poco sentito, un abbraccio recitato, un sorriso non autentico, arrivano al bambino come una comunicazione distonica rispetto a ciò che invece, con la parte emozionale, il figlio avverte. E’ quindi particolarmente importante, maggiormente con i nostri figli, dare spazio, dare voce, a ciò che sentiamo e tentare di metterlo in parole. Ciò crea una comunicazione autentica, sintonica, con il bambino in cui non ci sono dissonanze tra ciò che si sente e ciò che si dice, ma serve anche per allenare i nostri figli a collegare il sentire con il verbale, senza censurare le emozioni, ma dandogli diritto di cittadinanza e parola. Maggiormente in questa nostra epoca storica, in cui il mondo è particolarmente centrato sulle prestazioni, sul dimostrare la propria efficienza, sul recitare un ruolo, è prezioso allenare le future generazioni a dare valore a ciò che non si vede, al proprio sentire, in definitiva al mondo emotivo che esiste dentro ognuno di noi. Il ruolo dell’empatia è centrale in questo processo ed è con il nostro esempio che i figli possono davvero accedere alle proprie e altrui emozioni, imparando a nominarle, a dargli il valore e la preziosità che arricchisce la persona e tutte le sue relazioni.

Se io come genitore e come essere umano imparo a soffermarmi su cosa sento dentro di me e nella relazione con l’altro, se imparo a verbalizzarlo e se tutto questo può essere pronunziato con i miei figli, anche loro impareranno a dare spazio al loro mondo emotivo e a quello altrui. Saranno allora in grado di non elidere questa parte preziosa di loro stessi, utilizzarla senza censure nel rapporto con se stessi e con gli altri sviluppando a pieno le proprie potenzialità.